“Still-life”
Location: Bergamo
Studio Vanna Casati
via Borgo Palazzo, 42 (interno)
Progetto Curato da Raffaella Pulejo
dal 13 aprile al 2 giugno 2024
aperta da mercoledì a sabato dalle 167,30 alle 19,30
Bergamo aprile 2024
ITALO CHIODI
“Still-life”
In un tempo tanto rapido come quello che stiamo vivendo nel nostro quotidiano, è importante cercare
Cinque vasi da fiore sospesi ci accolgono all’ingresso. Sono vuoti. Un’immagine di natura in bianco e nero, come una pelle, smaterializza la terraglia bianca di cui sono fatti…
“Still-life”, letteralmente vita immobile, si traduce in italiano con natura morta, significando il genere di pittura che si afferma nel Seicento e che, attraverso l’evocazione sensoriale di soggetti naturali esteticamente addomesticati dagli uomini, richiama la brevità della vita e la vanità terrena. Nulla è più distante dal sentire della pittura di Italo Chiodi dell’allegoria moralizzante della tradizionale natura morta, sebbene sia proprio questo il codice visivo che l’artista reinterpreta attraverso un elaborato e colto processo fondato sulla pratica del disegno, che restituisce le cose alla vita dell’arte. In inglese, “still” è un’avverbio che indica la persistenza di un’azione nel presente; da solo significa “ancòra”. Mi piace, allora, forzare la traduzione e leggere still-life come ancòra-vita.
Il linguaggio di elezione di Italo Chiodi è il disegno. Egli fa sua l’affermazione di John Berger quando scrive:
“Per un artista disegnare è scoprire […] È appunto l’atto del disegnare che costringe l’artista a guardare l’oggetto che ha di fronte, a sezionarlo con gli occhi della mente e a rimetterlo insieme; o, se disegna a memoria, che lo costringe a dragare la propria mente, a scoprire il contenuto della propria riserva di osservazioni passate […] una linea, un’area di colore, non sono davvero importanti perché registrano quel che avete visto, ma per via di quel che, a partir da lì, sarete portati a vedere. Seguendo questa logica per verificarne la precisione, troverete una conferma o una smentita nell’oggetto stesso o nella memoria che ne avete. Ogni conferma o smentita vi porta più vicini all’oggetto, finché non siete, per così dire, al suo interno: i contorni che avete disegnato non indicano più il margine di quel che avete visto, ma il margine di quel che siete diventati.” 1
Il disegnare dunque non è un’azione di trascrizione della realtà attraverso la vista, ma la conquista di un modo di pensare, e di pensarsi nel flusso delle cose del mondo, della vita.
Il procedimento di Chiodi inizia dallo sguardo sul mondo naturale, talvolta camminando nei boschi della campagna bergamasca, altre volte concentrando l’attenzione su banali brani di natura che spuntano dal cemento. L’essere nelle cose, posarvi sopra lo sguardo, è un modo intenso ma indistinto di essere nel mondo, senza averne coscienza, per così dire. L’atto del vedere deve tradurre il sentire in atto di coscienza. Perché ciò accada, la coscienza deve figurarsi le cose, rappresentarsele internamente. Il vedere non è spontaneo, non distingue il sé dal caos del creato. Dunque l’esercizio di saper vedere, di imparare a vedere – rappresentarsi internamente le cose – è il primo atto di coscienza.
Italo Chiodi mi dice di essere stato colpito dai racconti di Palomar di Italo Calvino. Calvino aveva scelto il nome del suo personaggio ispirandosi al Monte Palomar, il noto osservatorio astronomico californiano, poiché Palomar avrebbe descritto “i fatti minimi della vita quotidiana in una prospettiva cosmica.” 2 L’esercizio del descrivere è quanto Calvino cerca di fare. Nella scrittura egli ricorre a figure che si compongono frase dopo frase fino a farci immaginare ciò che il personaggio vede. Lo scrittore agisce come il pittore. Nel racconto Il prato infinito, Palomar dice:
“ […] è ‘il prato’ ciò che noi vediamo oppure vediamo un’erba più un’erba…? Quello che noi diciamo ‘vedere il prato’ è solo un effetto dei nostri sensi approssimativi e grossolani; un insieme esiste solo in quanto formato da elementi distinti. […]quel che importa è afferrare in un solo colpo d’occhio le singole pianticelle una per una, nelle loro particolarità e differenze. E non solamente vederle: pensarle. […] Palomar s’è distratto, non strappa più le erbacce, non pensa più al prato: pensa all’universo. Sta provando ad applicare all’universo tutto quello che ha pensato del prato. L’universo come cosmo regolare e ordinato o come proliferazione caotica.” 3
Chiodi raccoglie piante, fiori, foglie, sterpi, durante le sue esplorazioni della natura, e le ricompone in studio, secondo un ordine armonico. Le configurazioni che ne risultano sono micropaesaggi che Chiodi fotografa. Le fotografie scandiscono il passaggio dalla scala minima degli elementi naturali, prima confusi nell’apparente caos della vita, alla scala ingrandita attraverso la lente dell’obiettivo fotografico secondo un ordine armonico che trasforma la percezione in atto del vedere. Il vedere è pensare: cioè ricondurre le forme all’infinita serie di memorie e cognizioni sedimentate nella mente. La natura vive ora nella forma di pensiero, di codice artistico.
Il procedimento di Chiodi è complesso e affascinante: l’artista proietta la fotografia del brano di natura che ha ricomposto in studio, sulla tavola disposta in verticale sul muro, come uno schermo. L’immagine proiettata è minuziosamente copiata a matita, come nella tecnica della camera oscura dei pittori olandesi del Seicento. Egli procede poi a riempire il fondo con l’inchiostro nero, sul quale interviene anche con la matita, “risparmiando” i contorni dell’immagine. Il fondo nero costituisce un piccolo spessore nel quale l’immagine è affondata. Qui inizia il lavoro del disegno vero e proprio, alternando la mina alla gomma per modulare la scala dei grigi: la matita procede per via di “mettere” (segni) e la gomma per via di “levare” (grafite), graduando l’ombra e i passaggi dal “dentro” dell’immagine al “fuori” dello sfondo. Il gioco delle ombre modula le profondità ricreando la verosimiglianza ingannevole della pittura classica. Il medesimo procedimento è applicato tanto sulle superfici piane, le opere su tavola, quanto sugli ovali convessi o le superfici tridimensionali dei vasi, facendoli ruotare durante la proiezione del frame fotografico dettagliatamente copiato matita. Il trompe l’oeil che ne risulta, mantiene l’inganno di verosimiglianza, mentre l’immagine si estende nella astrazione del segno.
I pittori che in passato utilizzavano la camera oscura, specie gli olandesi del secolo d’oro, venivano accusati dagli italiani di imperizia tecnica, cioè di servirsi di un dispositivo meccanico per realizzare quella verosimiglianza più difficile da rendere a mano libera. La critica moderna ha rilevato invece che i sistemi di visione sono profondamente culturali: se l’arte italiana del Rinascimento fondava l’immagine sulla dipendenza dalle fonti letterarie e sulla traduzione prospettica della centralità dell’uomo nel creato, l’arte nordica era invece descrittiva, e l’uomo non ne era il centro.4 Gli olandesi del Seicento, popolo di navigatori abituati alla visione cartografica dello spazio (spesso carte geografiche e mappamondi appaiono sullo sfondo delle loro pitture), influenzati dalla filosofia della natura “oggettivistica” e dalla ottica kepleriana, sviluppano un sistema di visione che si avvale di lenti e strumenti ottici con un effetto calligrafico del segno, così potente nelle loro nature morte. Lo sguardo descrittivo mi sembra ritrovarsi nel procedimento creativo di Chiodi, dove il dispositivo ottico – l’obiettivo fotografico prima e il disegno di contorno sulla proiezione dell’immagine dopo – raffredda la spontaneità confusa dello visione, mettendo a fuoco la forma. Su quella forma, copia di una immagine, non copia della natura, inizia il lavoro manuale del disegno.
Il supporto funziona in questa opera come uno schermo, il procedimento della camera oscura conserva l’imprinting di luce del frame fotografico, positivo e negativo, ed emana l’ambiguità del processo percettivo tra realtà e artificio. Diversi sistemi di visione meccanica, dalla camera oscura alla fotografia, si stratificano nella genealogia del disegno di Chiodi, senza tradire la natura astratta della pittura.
Raffaella Pulejo
1 –John Berger, Sul disegnare, (2005), Libri Scheiwiller, Milano 2007, p.11. La frase di Berger è citata da Italo Chiodi in esergo della sua tesi di dottorato presso il Dipartimento di Disegno dell’Università di Belle Arti di Granada, Spagna, un lavoro di ricerca che è frutto anche della pluriennale esperienza di docente di Disegno nell’Accademia di Belle Arti di Milano.
2 –Italo Calvino, Palomar, (1983), Mondadori, Milano 1994, p. V
3 –Ibidem, p. 34
Raffaella Pulejo